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L'ultima stanza di Franco

2019-06-07 16:36

Luigina Sgarro

Racconti, L'ultima stanza di Franco,

L'ultima stanza di Franco

La voce di suo figlio arriva da lontano. Eppure è lì, accanto al letto. La voce è remota, un sussurro. "Non devi avere paura, papà" dice la voce. "E’ solo un p

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La voce di suo figlio arriva da lontano. Eppure è lì, accanto al letto. La voce è remota, un sussurro. 
"Non devi avere paura, papà" dice la voce. "E’ solo un passaggio".
Franco sa che è un passaggio. Ma dove, dove sta andando, vorrebbe sapere. Certo che ha paura. 
Tutti hanno paura della morte. Ma suo figlio ha conosciuto poco la paura. E chi conosce poco la paura, pensa Franco, non conosce la vita.
Eppure Franco gliene aveva parlato. Vorrebbe chiedergli se lo ricorda. 
Lo sforzo rende tesa la linea delle sue labbra. Il viso pallido sul cuscino sembra appena animato. 
Ti ricordi? Vorrebbe dire, prendere il braccio di suo figlio e scuoterlo forte, come non ha mai fatto, non ha tempo per le buone maniere. 

Era nato che c’era la guerra, non era come adesso. La gente non faceva i cortei per protestare contro le bombe su di un paese di cui non sapeva neanche pronunciare il nome. Ricorda, aveva tre anni. 
La signora Ninetta aveva mandato suo figlio Tonino alla guerra senza dire nulla, senza sapere perché. Lo aveva salutato sulla soglia con gli occhi asciutti, come una madre spartana, senza rendersene conto. 
Tonino l’aveva guardata in un silenzio stordito. Franco spiava la scena da dietro le gambe di sua madre che stava immobile sulla soglia. 
Ricordava ancora l’odore di umido che veniva dalla porta aperta dello scantinato. Lo sguardo di Tonino, per molto tempo, a Franco era parso di rivederlo negli occhi delle teste dei vitelli esposte sui banchi della macelleria del paese. 
Il paese aveva le strade bianche, c’era sempre polvere dappertutto. A settembre l’odore del mosto riempiva le strade. 
Gli uomini ridevano agli angoli della piazza accanto agli alberi striminziti. I bambini erano mucchi rumorosi che si contraevano e si sparpagliavano come cellule di un cuore pulsante. 
Le commare sedute fuori dalle porte con le loro gambe gonfie o rinsecchite si lamentavano del tempo, potevano essere nuvole o anni.
Lo aveva fatto studiare, pensa Franco, e suo figlio alle superiori non ci voleva andare. 
Franco aveva fatto la quinta e poi aveva dovuto mettersi a lavorare. Il figlio del dottore, il figlio del farmacista, il nipote dell’arciprete che erano in classe con lui continuavano ad andare  a scuola. Gli sembrava che gli lanciassero occhiate irridenti.
Da bambino aveva pianto molto, di vergogna e di rabbia, quando aveva dovuto cominciare a mettersi a vendere, ambulante, vestiti e calze nei mercati di paese. 
Aveva pianto per la paura, tornando a casa di sera, con la bici carica, al buio delle strade che tagliavano i campi. Alla voce delle cicale e dei grilli si mescolavano sussurri sconosciuti nella notte che pullulava di fantasmi senza nome. 
Passando davanti al cimitero del paese, Franco vedeva ombre muoversi al di là della cancellata, e quando la luce della luna copriva il cielo di un manto appena azzurro, si costringeva a guardare da un’altra parte perché le ombre si facevano più grandi, profonde, minacciose. Franco aveva imparato presto, però, che quando si ha paura piangere è la cosa sbagliata perché le lacrime annebbiano gli occhi.

Gli era stato utile non piangere, fuggendo da un campo di concentramento in Grecia. Ricordava il suo compagno grande e grosso "un colosso!" diceva col suo sorriso scintillante che, invece, si era messo a singhiozzare. "E io lo trascinai via..." diceva.
I figli immaginavano, facendo un collage mentale delle foto degli album di famiglia, racconti della madre, della nonna, il padre magrissimo, tutto nervi e muscoli, trascinare quel compagno stremato fuori dal recinto del campo. "Lo abbracciai e ci separammo", raccontava e gli occhi verdi, ormai circondati da rughe sottili, gli brillavano di commozione. Aggiungeva dopo una pausa, tra sé e sé, "chissà che fine ha fatto?". Anche in quell’occasione aveva provato paura. Come un animale braccato era corso nella campagna. Alla luce della luna gli era sembrato di ritrovarsi davanti al cancello del cimitero del paese. 
Si era appiattito in un fossato che affiancava la strada quando aveva sentito arrivare una camionetta. Tutte le ossa gli facevano male e cominciava a sentire i crampi della fame. 
Quando la camionetta si era allontanata il campo era diventato silenzioso. Nella penombra le orme contorte degli olivi, ondeggiavano. 
Quando trovò la forza di muoversi, strisciando lentamente, ogni movimento pareva echeggiasse per miglia in lontananza. Era quasi l’alba quando arrivò alla casa, tutti dormivano, ne poteva sentire il respiro. 
Con la mano cercò la pistola che era riuscito a rubare prima di fuggire e provò ad estrarla. Era abbastanza facile, un movimento rapido. 
Si avvicinò alla porta e tentò di forzarla senza fare rumore. La porta si aprì con una specie di lamento. Non c’era nessuno, un tavolo di legno e quattro sedie al centro della stanza. 
Su di un mobile appoggiato alla parete un brocca piena d’acqua. Aveva la bocca secca. Afferrò la brocca e bevve d’un fiato. Sentì dei passi rapidi dietro la porta e tirò fuori l’arma prima di appiattirsi contro la parete. 
Era un bambino, poteva avere quattro anni. Si voltò verso di lui e lo guardò con stupore. Franco gli fece cenno di non fare rumore. 
Il bambino aveva l’aria seria, compunta. Si avvicinò al mobile addossato alla parete e lo aprì, tirò fuori una  pagnotta piatta e larga e gliela porse. 
Franco la prese, il sorriso gli costava fatica. Poi si girò verso la porta e uscì nella luce del mattino.
Non era stato sempre così facile. Aveva rubato le uova dai pollai, il cibo dalle ciotole dei cani. Qualche volta era riuscito a dormire in un letto e a lavarsi, circondato da ospiti silenziosi. 
Non riusciva a capire i loro pensieri. Gli piaceva immaginare che, in qualche modo, gli fossero grati di essere italiano. Si era chiesto se dietro la facciata della gratitudine non si nascondesse la paura per il suo viso scavato e la sua pistola. Prima di addormentarsi sentiva ancora la tensione in tutto il corpo, ogni rumore lo riempiva di inquietudine. Si ripeteva che il nemico era comune e confortato da questo pensiero riusciva a scivolare nel sonno.

Sulla nave che lo aveva riportato a casa aveva impresso nei propri occhi ogni sguardo che aveva incontrato, in ognuno aveva trovato, senza neanche cercarlo, un’immagine familiare. 
Il suo era rivolto alla terra che stava lasciando e non a quella in cui stava tornando. Pensò ad Ulisse e alle sirene.

Adesso, accanto al suo letto, suo figlio Domenico sussurra "E’ solo un passaggio". E che ne sai tu, vorrebbe dirgli ancora, se solo ce la facesse. 
Gli fa rabbia essere immobile, la voce che non esce. Vorrebbe chiedergli che cosa ha capito di lui, dell’uomo che è suo padre, che cosa ha capito di se stesso. 
Se ha trovato le risposte alle domande che faceva quando era piccolo. Franco gli chiedeva che voleva fare da grande e Domenico rispondeva "il dottore". E neanche allora Franco capiva. 
Gli sarebbe piaciuto che a otto anni ancora rispondesse che voleva diventare pilota di aerei, musicista, pittore. Domenico aveva gli occhi calmi e lo guardava perplesso. 
Da appena nato, già era perplesso, sapeva sempre perché le cose non si dovevano fare. Domenico aveva vissuto per esclusione.

Franco è colpito di nuovo da un ricordo, da un’immagine: dopo la guerra era come se tutti avessero davanti agli occhi una tela bianca. 
Quando era potuto tornare in Italia, come un uomo libero ed era rientrato al paese, ancora più magro, ancora più selvatico, aveva guardato le strade piene di sole e aveva pensato che nulla era più bello che poter usare di nuovo tutti i sensi. 
Voleva fare l’amore, fare l’amore subito. Voleva una donna bella da baciare e da toccare, che odorasse di terra e di acqua. Una donna col profumo nei capelli. 
E fu allora che vide lei. 
Profumava di primavera ma era fatta di spighe mature. "Come sei cresciuta" le disse. La ricordava una bambina, con le calze di cotone. 
Lei aveva sollevato un attimo gli occhi azzurri e li aveva riabbassati in fretta arrossendo. "Siete tornato", gli aveva detto in un soffio. 
Aveva sorriso lievemente e le labbra carnose avevano scoperto i suoi denti appena irregolari. Lui aveva proteso la mano per toccarla.  
Lei si era ritratta con un sussulto, stupita, spaventata. Dallo stomaco viene l’amore, pensò Franco. Non è che ci avesse ragionato sopra.
"Non è per te" gli aveva detto sua madre, con durezza, "Ma tanto sei capatosta e non cambi idea manco se ti uccidono". 
Franco era innamorato, certamente a modo suo, ma follemente. Lei era davvero bella e aveva un nome da principessa. Aurora. 
Lui le raccontava le sue storie e lei rideva divertita. Nessuna era come lei. Le strade si fermavano quando lei camminava. Sembrava che anche il vento trattenesse il respiro.

E’ ancora innamorato Franco, nel letto d’ospedale, con il figlio accanto. E quando si è innamorati non si può non aver paura di andare via, non si può non avere il desiderio di restare. 
Ma tu che ne sai. Gli vorrebbe dire. Eppure vorrebbe che Domenico sapesse: era stato mai innamorato lui? 
Domenico aveva sposato la donna giusta, la sua strada era dritta come il binario di un tram. Si fosse affacciato un attimo dal finestrino anche solo per salutare, un momento. 
E invece, Franco lo vedeva dai suoi occhi che suo figlio pensava che fosse un pazzo invecchiato senza essere cresciuto. Qualche volta gli aveva concesso compassione, mai comprensione.
Franco ci è nato con la paura e ci è cresciuto, aveva vissuto a testa bassa. 
Quando aveva perso il lavoro, neanche il tempo di bestemmiare, era andato avanti. 
Quando sua figlia era rimasta incinta a diciannove anni l’aveva guardata con tenerezza, allibito dalla paura che vedeva nei suoi occhi. Non sapeva che dire, aveva solo fretta che finisse il silenzio. Per cui ne era venuta fuori una carezza goffa e una frase farfugliata.
Si accorge adesso che ha vissuto di corsa. Solo qualche volta l’impotenza e la disperazione gli hanno lasciato tempo. La paura gli aveva sempre messo fretta.
Sente la mano di suo figlio Domenico posarsi sulla sua. "Hai sete papà?" Chiede. Ha la voce rotta dal pianto. 
Allora me ne sto proprio andando, pensa Franco. Non piangere Domenico, vorrebbe dirgli. 
Franco, davanti agli altri, non aveva mai pianto. Il silenzio ora è assoluto.
Vorrebbe dire a suo figlio che ha paura, è vero. Vorrebbe dirgli che ha paura di morire ma che se ci pensa bene, più che paura, è rabbia che sia già tutto finito. E non gli basta ancora. 
Crede che non sarebbe bastato mai. E’ che Franco ha un’avidità della vita che suo figlio non conosce, vuole mangiare ancora, bere ancora, sentire ancora il caldo dell’estate, l’odore dell’inverno sulla pelle della gente, quando la gente rientra, che ha un odore frizzante, quando fuori fa proprio freddo. 
Invece in questo momento Franco ha più paura per Domenico, di non lasciargli niente. No, non i soldi, di quelli suo figlio non ha bisogno. 
E’ che sente che Domenico si è arreso e allora vuol dire che non gli ha lasciato niente. Se potesse lasciargli la fame di vita che è tutta sua e che invece si porta via con sé... Franco ha paura di morire e suo figlio resta, con la sua paura di vivere. 
Gli potesse regalare questo con la sua morte, il senso di quello che resta.

"Non avere paura papà, è un passaggio", continua a dire Domenico. La voce gli trema. Si alza dalla sedia accanto al letto per andare a fumare una sigaretta in corridoio. 
Si avvicina ad una finestra aperta e guarda fuori alla luce della fine dell’estate, alla luce calda dorata dei tramonti di settembre. Il fumo della sigaretta annebbia l’immagine o forse sta ancora piangendo. 
Gli pare di non avere mai smesso e non ricorda più quando ha cominciato. 
Suo padre gli manca. Non perché stia morendo. E’ come se suo padre gli fosse sempre mancato dentro. 
Perché? D’un tratto capisce che suo padre non ha chiesto mai perché, ha vissuto e basta.

Domenico guarda il tramonto, ogni tanto si asciuga gli occhiali.